Martedì 18 Maggio l'artista siciliano è morto dopo una lunga malattia
A cura di Carmine della Pia
Provo sempre un po’ di imbarazzo quando arriva la notizia della morte di un personaggio noto. E’ un canovaccio che si ripete fino a svilire il senso dell’accaduto: ansa flash-tweet-post su Facebook tutti uguali-servizi al Tg-puntate speciali di Blob.
Ho saputo della morte di Franco Battiato da mia madre, a colazione.
L’iter prevede un susseguirsi social di interventi e canzoni postate, immagini stock dell’artista, volgari foto ricordo che ritraggono l’utente di turno con l’artista scomparso, come a dire, io c’ero, ennesima prova del protagonismo tipico dei new (ormai old) media. Quel giorno feci a meno di social, Tg, news, non riuscii ad ascoltare i dischi di Battiato, non mi sarebbe servito a nulla, anche perché mi si piantò in testa l’intro di Summer on a solitary beach per giorni, e sta ancora qui ben piantato, mentre scrivo. Pensai alla lunga strada che mi portava a Santa Marinella, anni fa, a bordo di una Panda, in una Roma rovente.

Forse è naturale legare con il prossimo anche grazie ai gusti musicali in comune. Con le persone a me più vicine, o quelle che ho amato di più, c’era sempre Battiato per mezzo: un brano, un disco, un concerto. Ho ascoltato Franco Battiato dal vivo il 5 giugno 2017, prima ed ultima volta. Una piazza del Plebiscito gremita, lui era spesso seduto, indossava una giacca arancione fluo. Aveva omaggiato la piazza cantando Era de maggio.
Tra il 1981 e il 1982 La voce del padrone è il primo disco italiano a raggiungere il traguardo del milione di copie vendute in patria. Sette brani che sdoganarono non solo Franco Battiato, ma soprattutto i dischi a-la Franco Battiato: testi raffinati, apparentemente no sense, spalmati su basi pop, new-wave, danzerecce che servivano da viatico per raggiungere l’ostile pubblico italiano di fine secolo.

Soltanto un mezzo come un altro per far breccia nel cuore delle grandi masse e portare loro all’ascolto di interpreti del calibro di Alice, Giuni Russo, Milva, che furono tra le più grandi protagoniste del “trattamento Battiato”, rispettivamente con i dischi Alice, Energie, Milva e dintorni. E Un’estate al mare parlava di puttane che sognano di andarsene al mare per vedere da lontano gli ombrelloni oni-oni, a proposito.
La cura, uno dei brani più riproposti e assurti a canzone d’amore per antonomasia, al suo autore non era mai andato giù granché, e neanche a me, ho sempre preferito La canzone dei vecchi amanti (testo di Duilio Del Prete, cover de La chanson des vieux amants di Jacques Brel) perché prendersi cura dell’amato è naturale, ma amare e fare propri i difetti dell’altro, o meglio, prendere coscienza dei propri limiti, e di quelli altrui, e dei propri fallimenti, lì sta il gioco serio.

Provo sempre un po’ di imbarazzo quando arriva la notizia della morte di un personaggio noto, perché penso alle reazioni del pubblico e non so mai come pormi sulla questione. Muore il personaggio, è qualcosa di astratto perché viene a mancare una persona che fisicamente non ha mai fatto parte del tuo quotidiano, eppure ti smuove qualcosa. L’ho saputo da mia madre, e non ho controllato le notizie, i post, gli elogi virtuali, le retrospettive televisive. Non ho letto Wikipedia, né messo su i suoi dischi.
Appresa la notizia, ho pensato a certi attimi, ai miei ricordi, che, volutamente o per caso, erano stati accompagnati dalla sua musica. Ho pensato alle persone che ho lasciato andare, e in più di un caso ascoltare un suo brano mi legava a quei momenti. Ho pensato a me, più che al personaggio, perché è venuto a mancare il custode di certi addii, e quel giorno l’ho vissuto in silenzio, senza pensare ad altro che a quell’intro che aveva aperto un brano, un disco, una decade, e un’era di cui Franco Battiato è stato forse ultimo testimone.
So che hai avuto degli amanti,
bisogna pur passare il tempo,
bisogna pur che il corpo esulti
Ma c’è voluto del talento,
per riuscire ad invecchiare,
senza diventare adulti.
(Fleurs, 1999)